Il 13 giugno 1981, a soli 6 anni, dopo tre giorni di agonia, muore Alfredino Rampi. Caduto in un pozzo artesiano non ne uscirà vivo, nonostante i continui tentativi di salvataggio, andati avanti per tre giorni.
13 giugno 1981, a Vermicino muore Alfredino Rampi
Una storia che ancora risuona con prepotenza nei pensieri di chi, in quei giorni di fine primavera, si preparava ad assaporare la dolce e calda estate italiana. E anche chi non l’ha vissuta, ma l’ha solo sentita raccontare, riesce a sentire dentro sé il dramma che ha sconvolto una nazione che in quei giorni, per tre giorni, lottava incessantemente per salvare un figlio, il suo: Alfredo Rampi, detto Alfredino.
Ciò che più rimane nell’animo di chi ha vissuto quel momento, da vicino e da lontano, non è solo il tragico evento in sé per sé, ma ciò che lo ha accompagnato, fino al tragico epilogo: la speranza e l’angoscia, insieme in un torbido mix, fluiti in tutto il Paese grazie al mezzo per eccellenza che (almeno a quei tempi) era la televisione. Nei primi anni ’80 la televisione era già a colori, le immagini apparivano più realistiche, più vicine e si aveva l’impressione di viverle “da dentro” certe cose. Nel 1981, in Italia, la TV la si può tranquillamente guardare a casa, senza dover per forza andare in qualche luogo pubblico, come si faceva fino a un po’ di anni prima, a tal punto che il tempo che non si spende a lavoro, lo si spende davanti la TV. Solo il dormire è un’attività per cui si spende maggior tempo. In più, ci sono anche le nuove televisioni private locali.
L’Italia, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, si trova in quel periodo di transizione chiamato gli “anni del riflusso”: la tendenza a rintanarsi nel privato, preferendolo alla socialità; abbandonare l’effervescenza politica che dal ’68 in poi è degenerata in omicidi, terrorismo, sequestri, attentati e colpi di stato rendendo l’Italia un “far west” e una perpetua scena del crimine che non risparmiava innocenti. Quegli anni stavano per finire, non senza aver lasciato traumi nelle coscienze degli italiani tutti. Forse era proprio per questo che una notizia del genere fece così clamore: in Italia non si vedeva l’ora di vivere in pace e tranquillità dopo più di 10 anni di terrore. Ma se a risvegliare gli animi non furono i colpi delle ormai note mitragliette Skorpion, stavolta ci pensò il volo di quel bambino di 6 anni.
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Tre giorni di “prigionia” forzata dal destino. Alfredino Rampi il 10 giugno 1981, intorno alle 19:30, scorrazza per le campagne di Vermicino, nell’hinterland romano (tra Roma e Frascati), assieme al padre e a due amici di lui. Alfredino decide di tornare a casa da solo, ma quando il padre Ferdinando torna a casa verso le 20:00, e non lo trova, partono le ricerche, fino alla chiamata alle Forze dell’Ordine qualche ora dopo. Alfredino è caduto in un pozzo, vicino ad una nuova costruzione, che doveva essere coperto, ma che, nel momento in cui Alfredino era passato, era stato lasciato senza adeguata copertura: uno di quelli che si è soliti chiamare “un fatale errore” o, semplicemente, “una fatalità”. Alfredino è incredibilmente sopravvissuto ad un volo di circa 35 metri, una caduta arrestata solo da una rientranza del pozzo che, in totale, era profondo tra i 60 e gli 80 metri.
Inutile ripercorrere i tentativi di salvataggio che vennero attuati, sarebbe come riproporre quel mix di speranza e angoscia che, ad oggi, non ci appartiene più, se non il rammarico che ne è derivato. Può essere sicuramente più stimolante gravitare attorno al contesto e alla situazione che si era creata, progressivamente, durante quei giorni.
Dalle ore 13:00 dell’11 giugno 1981, i “potenti mezzi della RAI” iniziarono, di fatto, quello che può essere definito il primo tragico “reality show” della storia della televisione. Rai 1, Rai 2 e Rai 3 iniziarono una diretta a reti unificate, grazie anche all’inviato del TG2 Pierluigi Pini il quale, qualche ora prima, aveva fatto caso ad un appello trasmesso da un’emittente televisiva privata laziale riguardo la necessità urgente di mezzi d’escavazione, decidendo così di recarsi a Vermicino con la sua troupe. Così, un normale fatto di cronaca diviene un caso nazionale: un consuetudinario telegiornale diviene la diretta più lunga della storia italiana e la RAI stravolge tutti i suoi palinsesti, nella speranza disattesa che in pochi minuti Alfredino possa essere salvato. In quei pochi momenti di pausa da Vermicino, i telefoni delle redazioni RAI squillavano trepidamente: non importava nulla della “Tribuna Elettorale”, della crisi di governo che stava portando al primo governo non retto da un democristiano (Giovanni Spadolini), dello scandalo della P2, delle Brigate Rosse, del terrorismo nero o della Roma criminale; l’Italia voleva stare tutta a Vermicino. Ma questa non era di certo la prassi: una regola non scritta, morale ed etica prevedeva di effettuare servizi di cronaca nel rispetto della privacy e dei sentimenti dei coinvolti, trasmettendoli in sintesi ed in differita. Quel giovedì qualunque, mentre gli italiani sono seduti sulle loro tavole da pranzo, nasce in Italia, per un caso del destino, la “TV del dolore”. “Un’occasione da non lasciar cadere” racconterà anni dopo Sergio Zavoli, allora Presidente RAI, quella di trasformare servizi di cronaca in qualcosa di “organico e sistematico che occupasse lo spazio della rete e non più soltanto dei telegiornali.”
Sul posto ormai si era creato uno di quelli che oggi siamo soliti definire “assembramenti”, fatto non solo di familiari e soccorritori, ma di volontari, tecnici, giornalisti, vicini di casa, curiosi della zona, venditori ambulanti di cibo e bevande: il furore delle telecamere aveva radunato a Vermicino circa 10.000 persone, le quali assistevano in prima persona ai tentativi di salvataggio di Alfredino. Più che assembramento, quasi un tifo da stadio: milioni ad assistere e lui da solo laggiù.
Alle ore ore 10:00 circa del 12 giugno 1981 Alfredino è stanco, piange. Viene nutrito con flebo di acqua e zucchero calate giù per il pozzo. La perforazione dello scavo parallelo al pozzo, tecnica scelta per salvare il piccolo, era ormai giunta al termine ed ora bisognava solamente scavare il raccordo orizzontale per mettere in collegamento i due pozzi. Ma la scavatrice si bloccò, così i Vigili del Fuoco iniziarono a scavare a mano, ma nel frattempo Alfredino aveva smesso di rispondere ai richiami dei soccorritori. I medici presenti potevano ascoltare ancora il suo flebile respiro: 48 espirazioni al minuto.
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Nel pomeriggio, a soccorrere il figlio d’Italia arrivò il padre degli italiani: Sandro Pertini, allora Presidente della Repubblica. A posteriori, si potrebbe dire che Pertini venne a soccorrere i figli d’Italia: i familiari di Alfredino e noi spettatori e telespettatori che assistevamo impotenti dinanzi a quella tragedia sempre più concitata. Infatti, la costruzione dello scavo parallelo ideato per salvare Alfredino, finì per essere, in realtà, la sua condanna: le forti vibrazioni fecero precipitare Alfredino 30 metri ancor più in basso.
Un uomo qualunque ma coraggioso, Angelo Licheri, per via della sua corporatura minuta, si propose per calarsi nel pozzo intorno alla mezzanotte tra il 12 ed il 13 giugno. Arrivò sino ad Alfredino, ma non riuscì a fargli indossare l’imbracatura che, ripetutamente, si sganciava. Non riuscì neanche a prenderlo in braccio, perché scivolava via dalle mani, a tal punto da rompergli involontariamente un polso. Stette 45 minuti a testa in giù, 20 minuti in più di quella che era considerata la soglia massima di sicurezza, poi tornò in superficie senza Alfredino. Errori tecnici, pressione emotiva, scarso coordinamento: Angelo non ebbe colpe, se non quella di essersi dedicato con gesti e parole di conforto a quel bambino. Eppure da quel giorno la sua vita non è più stata la stessa.
Così come non è stata la stessa per Nando Broglio, il Vigile del Fuoco che per tutto il tempo in cui la tragedia si stava consumando, parlava incessantemente, giorno e notte, con il piccolo Alfredino:
“Il suo dialogo con mio figlio mi ha salvato la vita. Mi liberava dall’angoscia di dover essere io a parlare. Sicuramente sarei impazzita. Nando è la persona che mi è rimasta più cara in quell’occasione“, queste le parole di Franca Rampi, mamma di Alfredino, in ricordo di Nando.
Intorno all’alba del 13 giugno vi fu l’ultimo tentativo da parte di un uomo, lo speleologo Donato Caruso, il quale, una volta tornato in superficie senza esser riuscito a prendere il piccolo, affermerà la probabile morte di Alfredino. La mamma Franca griderà invano il suo nome. Forse più che per chiamarlo, per liberare nell’aria il suo nome e l’anima di un figlio intrappolato nelle viscere della Terra. Quell’anima che percepiamo ancora oggi a 39 anni di distanza.
Oggi Alfredino avrebbe 45 anni.
Oggi Alfredino sarebbe Alfredo.