LETTERA APERTA DEI LAVORATORI DEL SAN RAFFAELE DI ROCCA DI PAPA DOPO LA MANIFESTAZIONE DEL 7 AGOSTO:
Siamo uomini e donne, madri e padri, nonni e nonne che si sono visti togliere uno dei diritti fondamentali della costituzione: IL LAVORO, e ad oggi nessuno ci dà delle certezze scritte nero su bianco sul nostro futuro, ci propinano solo parole.
Noi tutti dipendenti del San Raffaele Rocca di Papa il giorno 7 Agosto 2020 ci siamo ritrovati sotto l’ASL RM6, a manifestare, in modo pacifico, per i nostri diritti: il diritto alla retribuzione (due stipendi non pagati ad oggi) e il diritto al lavoro. In un momento storico così delicato, in cui lo Stato e la Regione Lazio danno fondi e aiuti alle imprese per non chiudere, a noi ci chiudono e ci abbandonano a noi stessi.
Le risposte che ci sono state date dalla ASL RM6 durante la manifestazione del 7 Agosto sono state deludenti ed umilianti: “Le fatture non vengono liquidate perché dobbiamo quantificare le spese sostenute dalla nostra ASL per le indagini svolte presso la vostra struttura e per i trasferimenti dei pazienti positivi presso le strutture covid dedicate”.
Questa risposta è per noi davvero deludente, in quanto i ritardi nella liquidazione delle fatture determinano un ritardo nel pagamento dei nostri stipendi e quantificare tali spese non crediamo sia una cosa che necessita mesi di lavoro.
Siamo arrabbiati, stanchi, quasi senza più le forze, dopo tutto quello che abbiamo vissuto, sentire queste risposte da parte di chi ha contribuito a metterci in questa condizione è davvero sconfortante.
Prima di addentrarci nel caso specifico è doveroso fare una breve carrellata su tutte le linee guida che si sono susseguite, da OMS, Ministero e vari Comitati scientifici su mascherine si, mascherine no, mascherine solo se a meno di un metro, mascherine solo se caso sospetto, tamponi a tutti, tamponi ad sintomatici, fino a tamponi per pochi eletti perché mancavano i reagenti, così come sono mancate le mascherine, e qui ricordiamo l’appalto flop della Regione Lazio con la Ecotech.
Ancora il 27 febbraio, una settimana prima del lockdown totale, in Italia si inneggiava, rigorosamente senza mascherina, a non abbandonare assolutamente la normalità.
Mentre molti la normalità non l’hanno mai abbandonata, noi dall’8 di marzo ci siamo isolati in casa, da tutto e tutti, uscivamo solo per andare al lavoro, siamo stati lontani dai nostri figli per mesi e non li abbiamo potuto abbracciare e coccolare.
Chi ha scritto molte falsità e menzogne su di noi, in primis la ASL RM6, dovrebbe fare mea culpa.
In particolare, la ASL Roma 6 ha gravissime responsabilità:
· la ASL Roma 6 ha completamente abbandonato cittadini e colleghi positivi a casa senza un tampone, qualche cittadino è anche morto in attesa, colleghi che in isolamento domiciliare hanno aspettato un tampone per settimane intere con a casa bambini piccoli, colleghi che hanno rischiato la vita.
· la ASL Roma 6 ha sbagliato con ben due colleghi indirizzo di casa e chissà a chi sono andati a bussare alla porta con il tampone in mano.
· la ASL Roma 6 ha organizzato – sempre dopo lunghe attese e numerosi solleciti – i tamponi a domicilio a nostri colleghi inviando personale totalmente sprovvisto di dispositivi di sicurezza individuale.
· la ASL Roma 6 ha organizzato i controlli sui pazienti di notte, dopo le 21 anche fino alle 23, quando i nostri anziani pazienti sono pronti per riposare o già riposano (umanizzazione delle cure ed empatia non sono da loro contemplate?).
Moltissimi operatori si sono ammalati a Rocca di Papa come in tutta Italia (basta vedere i dati INAIL).
Ma chi ci doveva tutelare?
L’art.7 del DECRETO-LEGGE 9 marzo 2020, n. 14 dispone che i sanitari esposti a pazienti COVID-19 non siano posti in quarantena, ma devono continuare a lavorare anche se potenzialmente infetti. La sospensione dal lavoro è prevista solo per i lavoratori sintomatici o positivi: quindi se un operatore, come è accaduto per la maggior parte di noi e per la maggior parte dei professionisti sanitari di tutta Italia, è asintomatico non può e non deve fare il tampone (perché il tampone da linea guida si fa solo se hai chiari sintomi covid), ma potenzialmente può infettare i pazienti.
Queste procedure hanno purtroppo agevolato la diffusione del covid non solo al San Raffaele Rocca di Papa, ma in qualsiasi altra struttura pubblica o privata in Italia.
E giusto per chiarire, quando molti di noi già facevano il 3° tampone di controllo (uno a settimana), colleghi della ASL Roma 6 non facevano neanche il primo pur essendo stati a contatto con Covid positivi.
Un’ordinanza della Regione Lazio del 18 aprile 2020 ribadiva i principi dettati dai vari DPCM che si sono susseguiti dall’8 marzo in poi sottolineando che:
• le ASL devono proseguire con il monitoraggio e sopralluoghi delle strutture territoriali residenziali e semiresidenziali sanitarie di competenza del proprio territorio.
In particolare, la ASL Roma 6 doveva rilevare il fabbisogno di DPI, che devono essere si garantiti da ogni singola struttura, ma in caso di problemi di reperimento doveva essere la Regione tramite Asl che provvede al fabbisogno giornaliero, imputando poi il costo alla struttura secondo il valore medio di acquisto regionale e decurtato poi in occasione del saldo annuale. I dispositivi scarseggiavano in tutta Italia, gli ospedali facevano fatica a reperire i DPI, e quando è stata contattata sia la ASL Roma 6 che la protezione civile la risposta è stata la stessa “dobbiamo occuparci prima degli ospedali perché la disponibilità di dispositivi è poca”. Va comunque precisato che nessuno di noi ha mai lavorato senza mascherina e DPI.
Al San Raffaele di Rocca di Papa non si è MAI visto NESSUNO, se non dopo la rilevazione dei primi casi.
Sul verbale scrivono di un sopralluogo il giorno 6 Aprile 2020 (al 5 di Aprile avevamo un caso accertato trasferito nella stessa giornata), ma non sono nemmeno entrati, si sono fermati sul cortile, all’esterno della struttura, dato informative e indicazioni utili per la limitazione del contagio ai responsabili di struttura, senza effettuate alcun sopralluogo, senza vedere percorsi e limitazioni della struttura. Che tipo di sopralluogo è mai questo?
La verità è che nessuno è venuto per mesi a controllare né tantomeno ad effettuare tamponi.
Al contrario di quanto è stato riferito da alcuni parenti dei pazienti alla vicesindaco Cimino e di quanto è stato riportato dalla ASL Roma 6, il primo caso sospetto rilevato il 3 aprile è stato immediatamente isolato in una stanza singola, garantendo un’assistenza con personale dedicato su ogni turno in attesa dell’esecuzione del tampone il cui risultato arriverà solamente il 5 Aprile da parte del Campus Biomedico di Roma.
Nel frattempo, durante l’attesa del referto, i pazienti che erano in stanza con il primo caso sospetto sono stati trattati tutti e tre come casi sospetti con utilizzo di DPI e la porta della stanza chiusa, non per abbandonare i pazienti come hanno dichiarato alcuni parenti, ma per evitare l’eventuale diffusione del covid, perché come affermano molti virologi lì dove non è possibile strutturalmente contenere l’isolamento, le porte delle stanze vanno chiuse e si entra lì quando è necessario (terapia, cure igieniche rilevazione parametri): noi in quella stanza siamo entrati 6/7 volte nelle 24 ore, rilevando ad ogni ingresso saturazione e temperatura.
Il giorno in cui è arrivato il referto che confermava la positività al covid-19 del primo caso, era il 5 aprile di domenica alle 13, è stato subito eseguito il secondo tampone e il paziente è stato immediatamente trasferito al fine di evitare il diffondersi del contagio. Il giorno seguente non è venuta la ASL ad effettuare i tamponi agli operatori del reparto e al resto dei pazienti della lungodegenza medica B, ma li ha effettuati la struttura e i ritardi nella refertazione anche qui sono stati di 4/5 giorni. Nel frattempo, come da decreto, gli operatori (molti dei quali sono risultati positivi) continuavano a lavorare, perché in attesa delle risposte e assolutamente asintomatici.
Anche nei giorni difficili della battaglia contro il covid le istituzioni ci hanno lascito soli ed abbandonati.
La cosa sorprendente è che continuavano ad inviare ricoveri dalle strutture ospedaliere con un semplice link epidemiologico con domande alquanto ridicole per pazienti anziani e per la maggior parte affetti da demenza: “è mai stato in Cina?”, “ha avuto contatti con covid positivi”. Inoltre, alcuni pazienti arrivavano con tamponi negativi di una settimana o addirittura di 15 giorni prima.
Dopo il primo caso accertato abbiamo aumentato l’attenzione per i pazienti che ci venivano inviati dalle strutture ospedaliere.
Emblematico il caso di un paziente arrivato in hospice il 6 aprile (va sottolineato che il sistema immunitario dei pazienti in hospice è talmente compromesso che ci vuole una minima scintilla per far esplodere una bomba). Questo paziente è arrivato con un quadro respiratorio compromesso in ossigeno terapia, con una polmonite interstiziale in diagnosi, un tampone vecchio di 15 giorni e temperatura corporea alterata. Ovviamente il paziente è stato rimandato indietro al fine di evitare il diffondersi del contagio nella struttura, ma il giorno dopo la direzione sanitaria dell’ospedale di provenienza del paziente rimandato indietro ha protestato e pretendeva pure delle spiegazioni.
Caso simile è avvenuto anche per la lungodegenza, paziente arrivato i primi di Aprile con 37,7, in ossigeno terapia polmonite bilaterale “risolta”, rimandato indietro e, anche qui il giorno seguente il presidio ospedaliero di provenienza chiedeva spiegazione sulla non accettazione del paziente.
La verità è che molti dei pazienti risultati positivi erano entrati in struttura da poco e molto probabilmente erano positivi già nelle strutture di provenienza.
Oltretutto dopo il primo caso positivo del 5 aprile, dalla data del 15 aprile non si sono più rilevanti casi positivi, anzi molti pazienti si sono negativizzati. Questo a dimostrazione del buon lavoro che è stato svolto.
Comunque a differenza di quanto riportato nel decreto, una volta evidenziato il primo caso nella lungodegenza il reparto si è totalmente blindato, ci siamo dovuti praticamente improvvisare struttura covid pur non avendo – strutturalmente parlando – i mezzi per farlo, perché la nostra struttura non nasce per la gestione di malattie infettive e, sempre strutturalmente non è adeguata per il contenimento delle infezioni come più volte ribadito ai vertici della ASL. Invece, la ASL Roma 6 ha lasciato i pazienti positivi da noi per quasi 30 giorni.
C’è stato un clamoroso ritardo da parte dell’ASL Roma 6 nel provvedere al trasferimento dei pazienti.
Ogni volta che la ASL veniva invece di dare concretamente una mano faceva gli interrogatori al personale già stremato dalla situazione.
Da noi nessun paziente è stato mai abbandonato e lasciato senza assistenza, seppur sotto organico a causa della positività di alcuni operatori.
E la famosa notte del 20 Aprile, che è stata tanto contestata perché dai verbali della ASL risulta essere una notte senza operatori, non era assolutamente scoperta come poi verrà verificato dalle timbrature.
Nel decreto di revoca dell’accreditamento sono riportate anche gravissime violazioni della privacy, visto e considerato che sono stati riportati nomi cognomi, mansioni e stato di salute di alcuni.
Le tante lettere di encomio per il nostro lavoro, le tante lettere di sostegno e le tante lettere di disapprovazione della scelta ingiusta di revoca dell’accreditamento della regione non sono state affatto prese in considerazione dagli organi competenti.
A noi tutte quelle lettere di solidarietà hanno riempito il cuore di gioia.
Come la lettera di un paziente malato terminale in carico domiciliare con il nostro hospice che a Marzo, dopo una brutta ricaduta, gli è stato negato il ricovero da parte dell’ASL Roma 6 perché aveva febbre (febbre equivale ormai a covid), gli hanno effettuato il tampone a domicilio dopo solleciti e ci è voluta una settimana per avere le risposte da parte di un presidio ospedaliero della zona.
Pazienti del genere con patologie terminali non possono permettersi tempi di attesa così lunghi per un tampone.
Nella puntata di Report del 18 maggio è stato mostrato un avviso della Regione Lazio che chiedeva la disponibilità delle RSA e case di riposo di ospitare pazienti covid positivi, e molte hanno risposto positivamente a questo avviso, senza fare nomi, non comunicando ciò né a parenti, né agli operatori impiegati in queste strutture. Nel servizio l’assessore alla sanità della Regione Lazio ha ovviamente “smentito scappando”.
Si è notato un vero e proprio accanimento contro il San Raffaele di Rocca di Papa.
In molte altre strutture della Regione Lazio si è verificato lo stesso problema, con percentuali di covid positivi davvero alte, ma nessuna è stata chiusa, a nessuna è stato revocato l’accreditamento, anzi queste strutture sono diventate spesso strutture covid. La decisione presa dalla Regione Lazio è palesemente di lotta politica, e a rimetterci sono solo gli operatori che hanno lottato, pianto sotto quelle visiere, gli operatori che sono stati umiliati e descritti come infermieri di serie b ed ora non vedono tutelati i loro diritti.
I lavoratori del San Raffaele Rocca di Papa