Il 29 settembre, una donna denuncia sul suo profilo Facebook di aver scoperto che una croce bianca nel cimitero di Prima Porta, a Roma, reca il suo nome. Non è la sua tomba, chiaramente, ma quella di suo figlio. La donna, alcuni mesi prima, aveva abortito dopo aver scoperto che il feto aveva delle malformazioni tali da non potergli garantire una vita dignitosa in futuro. Dopo aver firmato i fogli relativi all’interruzione terapeutica di gravidanza, la donna si rifiuta di procedere con le scartoffie relative alla sepoltura e alle esequie del feto.
L’assurda situazione denunciata dalla donna
Passano dei mesi e, dopo non aver ricevuto risposte dalla struttura presso cui aveva abortito, decide di contattare la camera mortuaria per chiedere proprio della sepoltura. Tramite questa telefonata, la donna apprende che il feto verrà sepolto, per beneficenza, nella sezione intitolata “Giardino degli Angeli” del cimitero Flaminio.
Dal sito dell’Ama, la municipalizzata romana competente per i cimiteri, si apprende che in questo spazio trovano sepoltura “i “prodotti del concepimento” o i “feti” che non hanno avuto onoranze funebri perché sepolti su semplice richiesta dell’ASL. Gli stessi giacciono in fosse singole, contraddistinte da un segno funerario apposto da AMA-Cimiteri Capitolini, costituito da croce in legno ed una targa su cui è riportato comunemente il nome della madre o il numero di registrazione dell’arrivo al cimitero, se richiesto espressamente dai familiari.”
Il problema è che, in questo caso, manca l’assenso della donna, che denuncia una violazione di privacy per aver trovato il suo nome esposto “pubblicamente” in un cimitero, sulla croce memoriale di quel figlio mai venuto al mondo.
Dopo questa denuncia, sono state molte le donne che hanno raccontato la propria storia. Consensi mai dati e croci bianche con i loro nomi. Il Garante per la Privacy ha aperto un’istruttoria mentre chiedono un intervento tempestivo in campo legislativo anche molti parlamentari e consiglieri regionali. Manca infatti, come si legge pure sul sito dell’Ama, una regolamentazione regionale sulla gestione dei feti post mortem. E quindi, al momento, si fa riferimento ad un Regolamento nazionale del 1990, che prevede la sepoltura su richiesta dei genitori o dell’Asl competente per i feti abortiti dalla ventesima settimana di gestazione.
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Su questo caso, sia Ama sia l’Asl respingono categoricamente l’accusa di violazione di privacy quando invece, mi sembra molto evidente di quanto la sfera personale della donna sia stata violata. La sua, come quella di tante altre.
Nonostante il post di denuncia sia pubblico, ho volutamente omesso il nome della donna che, coraggiosamente, ha raccontato la sua storia. Almeno in questo articolo, voglio garantirle il diritto all’anonimato. Un diritto che deve essere tutelato, specie in situazioni così intime e personali, dolorose e talvolta sofferte. Ogni donna che prende la decisione di abortire deve essere salvaguardata, accompagnata nel suo percorso medico e non pubblicamente messa alla gogna come succede a Roma e in tanti altri cimiteri italiani.
Nessuno merita di essere crocifisso.