Anche quest’anno USB risponde all’appello lanciato dal movimento Non Una di Meno proclamando lo sciopero generale di tutte le categorie, pubbliche e private (esclusi i settori: trasporti ed energia), per la giornata dell’8 marzo 2023.
Quello di quest’anno è anche il primo sciopero generale contro il Governo di destra uscito dalle urne dello scorso autunno, il primo guidato da una donna. Che questo elemento, al di là del valore simbolico che pure rappresenta, non abbia alcuna influenza sulle politiche governative ci è stato da subito molto chiaro.
La pandemia, la guerra, la crisi energetica, il carovita allargano la forbice della disuguaglianza di genere, accrescono il lavoro povero e sottopagato, lo sfruttamento e la marginalità nei quali si trovano prevalentemente le donne e i giovani.
La precarietà diventa sempre più una condizione di vita dalla quale risulta difficile affrancarsi mentre il ricatto del licenziamento per le donne si associa anche al dato delle crescenti molestie sui luoghi di lavoro e al fenomeno delle dimissioni.
Lo smantellamento, come primo atto di Governo, del reddito di cittadinanza – già peraltro ampiamente insufficiente ed assoggettato a odiose condizionalità – che rappresenta l’unica possibilità di sostentamento per milioni di persone, e l’assoluta contrarietà all’introduzione di un salario minimo per legge ben chiariscono la portata dell’attacco al mondo del lavoro e ai ceti popolari e la pulsione delle classi dirigenti a forme sistematiche di ricatto e colpevolizzazione delle povertà.
Del resto anche la legge di bilancio ha il compito di chiarire, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che non c’è alcuna volontà di redistribuzione della ricchezza che al massimo è affidata alla concessione di qualche bonus e non a investimenti strutturali.
Vi è una stretta correlazione tra il peggioramento delle condizioni di lavoro, il mancato accesso al lavoro, la discriminazione economica e il percorso a ostacoli che una donna deve compiere per potersi liberare da legami violenti e salvarsi la pelle.
La violenza sulle donne nella sua accezione fisica, quella manifesta e ripugnante, non può essere scissa da quella legata all’aspetto economico e istituzionale.
La violenza economica, che vede il primato dei licenziamenti delle donne, i part time obbligatori, la strategia dei licenziamenti mascherati da trasferimenti a chilometri di distanza da casa. Quella che punta ad un aumento progressivo dell’orario di lavoro, a fronte di salari tra i più bassi d’Europa, in nome di una competitività sfrenata a tutto vantaggio di una classe dirigente ed imprenditoriale che pensa a macinare profitti e spremere come limoni la classe lavoratrice.
Una violenza economica che si sta riversando in modo sempre più drammatico anche nella scuola dove, attraverso il PCTO – ex alternanza scuola lavoro – le e gli studenti sono chiamati ad imparare lo sfruttamento e il lavoro gratuito.
In questa situazione di profonda disparità e frammentazione del mondo del lavoro si aggiunge l’autonomia differenziata, destinata ad ampliare le disuguaglianze tra nord e sud e ad introdurre ulteriori discriminazioni salariali e nell’accesso ai servizi essenziali.
D’altra parte la propaganda familistica e reazionaria di questo Governo ben si coniuga con l’attacco allo stato sociale e ai servizi pubblici.
La retorica della donna madre di famiglia giustifica la riduzione dei servizi addossando alle donne il lavoro di cura. Miliardi di ore di lavoro non retribuito da cui estrarre un incredibile valore economico.
La difesa e il rafforzamento dello Stato Sociale, così come la rivendicazione di condizioni di lavoro dignitose e non soggette alla precarietà permanente, di salari adeguati al reale costo della vita, sono condizioni irrinunciabili non solo per creare forme di autonomia economica ma anche per favorire reali percorsi di fuoriuscita dalla violenza, al di là della propaganda e della retorica da festa una volta l’anno.