In un contesto sociale iper-digitalizzato, in cui l’età media di accesso ai dispositivi tecnologici si abbassa sempre di più, cambiano anche le modalità educative e di controllo messe in atto dai genitori. Soprattutto in relazione al device più diffuso tra i giovani e i giovanissimi, ovvero lo smartphone.
I telefonini di ultima generazione non sono soltanto strumenti di comunicazione, ma veri e propri mini computer a cui ci rivolgiamo per lavoro, svago e quant’altro. Le loro potenzialità sono pari solo ai pericoli a cui soprattutto i minori sono esposti, ovvero minacce, bullismo, pedopornografia. Da qui l’esigenza, da parte degli adulti, di esercitare un controllo più stringente.
Al giorno d’oggi, gli strumenti per controllare il cellulare dei propri figli sono molteplici, dalle app di parental control ai più invasivi software spy phone, che consentono di gestire il telefono da remoto e, all’occorrenza, trasformarlo in una vera e propria microspia. L’uso di queste tecnologie è consentito o lede la privacy del minore, riconosciuta dalla Convenzione sui diritti dell’infanzia (1991)?
Sul tema, la giurisprudenza italiana ha imboccato una precisa direzione. Vale la pena ricordare la pronuncia di un giudice di Parma. La sentenza 698 del 5 agosto 2020 ha dato ragione a una mamma, la quale aveva installato sul cellulare dei propri figli un sistema di controllo parentale. L’obiettivo non era quello di intromettersi nella vita privata dei due adolescenti, ma verificare che non fossero esposti a contenuti pericolosi per il loro sviluppo psicofisico. Il giudice ha dato ragione alla donna.
La sentenza è importante perché sottolinea con forza ed estende un principio già noto. La Costituzione stabilisce che i genitori hanno il diritto e il dovere di mantenere, istruire ed educare la prole. All’interno di questo perimetro rientra anche il controllo del cellulare dei minori con lo scopo di prevenire possibili pericoli o reati. Anche il tribunale di Caltanissetta si era pronunciato in tal senso, qualche mese prima. Anche qui, una madre aveva installato un software spia per controllare l’attività online dei figli. Anche qui, il giudice aveva dato ragione alla donna, soprattutto a seguito della scoperta di situazioni pericolose che avevano coinvolto i figli, ovvero l’uso di sigarette elettroniche e la partecipazione a chat con contenuti pedopornografici.
Dalla lettura delle due sentenze si può concludere che monitorare il telefono dei propri figli preadolescenti e adolescenti è equiparabile a un dovere. Anche alla luce del principio di corresponsabilità, in base al quale i genitori rispondono di eventuali reati commessi dai figli minori.
È quindi sdoganata l’installazione di app di parental control e software spia, soprattutto nei casi in cui c’è il fondato sospetto che i ragazzi possano essere vittime di comportamenti penalmente rilevanti o, a loro volta, autori di gesti sconsiderati. Le possibilità del controllo si estendono dallo smartphone al personal computer, in particolar modo la cronologia di navigazione e l’hard disk.
È chiaro che questo monitoraggio deve mantenersi entro certi limiti. Un genitore non può spiare un figlio perché geloso o per semplice smania di controllo. In questo genere di situazioni, passare dalla parte del torto è piuttosto facile. Occorre inoltre considerare le implicazioni morali di un simile comportamento. Spiare un cellulare, anche quello di un figlio minorenne, è pur sempre un fatto grave, che rischia di minare la fiducia alla base di ogni sano rapporto familiare.
La via migliore, raccomandano psicologi e pedagogisti, è quella di parlare con i propri figli, educarli a un uso responsabile della tecnologia, istruirli sui rischi e i pericoli del web. Più in generale, nutrire una costante propensione al dialogo, per far sì che soprattutto i più piccoli sappiano di poter sempre contare sui propri genitori nei momenti di difficoltà e per qualsivoglia disagio.