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“Diari meridiani di un’Italia minore”: ai rifugi di Colleferro la mostra fotografica che racconta dei paesi abbandonati e spopolati di Campania e Calabria

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Un viaggio alla scoperta di luoghi apparentemente dimenticati, ma che vivono nella mente e nella quotidianità dei pochi superstiti rimasti per conservarne la memoria. Storie di cultura e tradizioni, di un’Italia che vive parallela nelle abitudini di chi ha preferito mantenere il piacere di coltivare un’esistenza semplice ma appagante, piuttosto che adeguarsi alla globalizzazione imperante dei giorni d’oggi.

“Diari meridiani di un’Italia minore”, la mostra curata da Annalisa Ramundo all’interno dei Rifugi di Santa Barbara e patrocinata dal Comune di Colleferro, spiega attraverso il linguaggio sincero delle immagini il microcosmo che avvolge la storia di alcuni piccoli centri della Campania e della Calabria, vivi ormai solamente nella cartina geografica anche per colpa di alcuni fenomeni naturali che hanno reso inabitabili le zone, costringendo le nuove generazioni ad emigrare verso altri lidi. Dopo l’inaugurazione tenutasi ieri, venerdì 26 maggio, le visite saranno aperte anche nel week-end del 27-28 maggio e nelle giornate del 10 e 11 giugno, sempre dalle 17 alle 19.30. Per chi volesse prenotare una visita nei giorni di mezzo è possibile contattare il numero 370/3451040.

La prima sezione della mostra è stata dedicata proprio ai paesi abbandonati: un esempio esplicativo è quello di Roghudi Vecchio in provincia di Reggio Calabria, centro posto nel mezzo dell’Aspromonte dichiarato inagibile dopo la moltitudine di alluvioni subite all’inizio degli anni ’70. Attualmente Roghudi è popolato solamente da animali selvatici e per raggiungerlo è necessario viaggiare in fuoristrada.

Il particolare significativo colto dall’obiettivo di Annalisa è che questo paese sembra essere stato abbandonato di corsa, come se gli abitanti fossero stati costretti a fuggire da un momento all’altro. Il risultato è che la comunità del paese si è dispersa, anche se le generazioni più anziane non si rassegnano all’idea di perdere le loro radici e in alcuni casi sono arrivate addirittura ad intonacare nuovamente le loro abitazioni, pur sapendo che per loro sarà impossibile tornare a viverci.

Un paese dove il mondo sembrava essersi fermato: l’economia del posto si basava infatti esclusivamente sul baratto e la moneta cominciò a circolare addirittura a partire dagli anni ’60. Anche la lingua, il Grecanico antico, è ormai in disuso e solo i più anziani la ricordano.

Quello delle alluvioni è stato un problema che ha condizionato molti dei centri della zona, come ad esempio Bova Superiore. Secondo la tradizione, sembra che le mamme legassero i loro bambini con delle corde per farli muovere in sicurezza ed esorcizzare così la paura che finissero sott’acqua.

Brancaleone Superiore è ormai diventato sede dei terreni da pascolo per le capre, nonostante sia stato riconosciuto come sito archeologico. Tutti gli abitanti sono stati costretti a trasferirsi nella parte nuova della città, “una colata di cemento che ha rovinato tutto…”, come ha raccontato un pastore spiegando le sue sensazioni di non poter più godere della vista del mare che c’era una volta.

Vivere questi paesi nella quotidianità è molto più difficile che abitare in città. Per i pochi coraggiosi che ancora popolano queste aree, il paradosso è quello di un grande disagio pratico, con servizi inesistenti e strade vuote che acuiscono il ricordo dei fasti di un tempo. Per alcuni, però, il legame con la loro “strada” è talmente forte da costituire un fattore imprescindibile per rimanere.

Per chi ha deciso di rimanere, le lancette dell’orologio sembrano essersi d’incanto fermate. Si ritrova la cordialità di un tempo, la voglia di condividere emozioni, l’ospitalità tipica di chi vede il forestiero come un amico, una risorsa per aiutare a coltivare la memoria. Molti di loro amano lavorare la campagna e veder germogliare la terra. La produzione di risorse alimentari assume quindi un ruolo fondamentale per mostrare che la terra è “viva”.

Un esempio lampante è quello di un signore di Fondola, il quale trascorre le sue giornate preparando conserve e prodotti tipici del posto. Una produzione assolutamente esagerata per soddisfare le esigenze di un nucleo familiare di tre persone – con lui vivono anche la moglie e la madre – ma, come spiega egli stesso: “il cibo non va sprecato, lo inviamo ai nostri figli per consentirgli di gustare i sapori della nostra terra”.

Per i superstiti c’è l’orgoglio di rimanere in un posto suggestivo e di tradizione. La vita è lì, nel silenzio della campagna. Il paese è spopolato, ma rimane il luogo dell’anima di questi abitanti.

Il compito dei “superstiti” è quello di salvare cultura e tradizioni del posto, impegnandosi a mantenere viva la memoria. C’è chi lo fa attraverso la produzione di alimenti, chi attraverso la creazione di oggetti particolari.

“La voglia di intraprendere questa esperienza è nata dopo la lettura de “Il senso dei Luoghi”, un libro scritto da Vito Teti che parla dal punto di vista antropologico dei luoghi abbandonati della Calabria – ci spiega la stessa Annalisa Ramundo -. Per gusto personale mi sono concentrata esclusivamente sull’area grecanica e dell’Aspromonte, partendo proprio con l’approccio antropologico e sociologico dell’autore. Teti non ama citarli come “paesi fantasma”, è una definizione secondo lui inesatta perché non tiene conto della sacralità dei luoghi, producendo un’immagine distorta e che potrebbe attirare un tipo di turismo che non avrebbe lo spirito giusto per approcciarsi alle loro storie. Questi posti meritano infatti un turismo diverso, consapevole del dolore che hanno attraversato le comunità nell’abbandono, è questo il senso.

Finalità del mio lavoro? Dico la verità: ho creato questa mostra spontaneamente per assecondare un’esigenza tutta mia di raccontare il viaggio che ho voluto fare, non voglio ne attirare ne promuovere turismo. Chiaro che, dopo aver visitato e vissuto questi luoghi, mi piacerebbe che le aree venissero conosciute, ma sempre nel rispetto della loro storia e sacralità, cercando di capire di che turismo hanno realmente bisogno: un turismo che non le faccia dimenticare nella memoria collettiva. Ovvio che, per portare avanti questo tipo di progetto, dovranno trovare un’economia alternativa. Nei giorni d’oggi è riesploso un nuovo filone di turismo alternativo, ma l’errore più grande sarebbe promuovere questi luoghi come paesi fantasma. Si tratta infatti di comunità che hanno attraversato un determinato percorso storico e quindi, per ripartire, ci deve essere innanzitutto la voglia e la consapevolezza di dover ascoltare in primis le persone che ancora vi abitano”.