Era il 1985 e Gianni Morandi, sulle note della sua musica, ricordava a tutta Italia che solo uno su mille ce la fa. Sono passati più di 30 anni, e questa lezione sembra essere più attuale che mai, soprattutto se si considera la situazione odierna delle start up italiane: giovani aziende tecnologiche animate da idee alle volte straordinarie e davvero innovative, ma costrette a scontrarsi con una serie di politiche che – purtroppo – non ne favoriscono l’esplosione, come ad esempio la quantità ridotta di finanziamenti pubblici in confronto agli altri paesi europei. Ed ecco che, appunto, solo una su mille ce la fa: ai nastri di partenza si presentano in tantissime, ma poi a conti fatti sono davvero poche le start up tricolori che riescono a superare la prima fase di incubazione, per poi trovare un loro posto concreto sul mercato nazionale ed internazionale. Ma le difficoltà e gli ostacoli, solo tali per la necessità di superarli: un aspetto che alle volte funge da stimolo, e non necessariamente da deterrente per il successo di un’idea.
Start up italiane: qual è la situazione?
Nel 2012 il Ministero dello Sviluppo Economico Italiano (MiSE), ha deciso di avviare un piano di finanziamento su larga scala per le start up italiane meritorie, denominato Restart Italia. Purtroppo, il “riavvio” della nostra economia è rimasto solo ad una concezione teorica, senza poi trovare il necessario sviluppo pratico: le politiche di finanziamento hanno dovuto scontrarsi con limitazioni economiche piuttosto evidenti, che hanno avuto un contraccolpo non da poco sulla naturale tendenza creativa dei giovani imprenditori dello Stivale, rimasti spesso al palo, bloccati proprio dalla necessità di trovare quella liquidità necessaria per investire sulla propria idea.
Ed i dati rilevati in tal senso, non dimostrano solo la scarsezza del numero di start up che riesce a superare l’incubazione, ma anche la profonda differenza in termini di numeri e di fatturati di quelle che ce l’hanno fatta, se paragonate alle competitor europee. Ad esempio, sono solo 135 le scale up italiane (dunque con un capitale sociale di livello) mentre in campo estero troviamo paesi che sforano le 1.500 scale up. Inoltre, la media relativa ai ricavi delle start up italiane è inferiore di due terzi rispetto agli altri paesi nella zona Euro: circa 200.000 euro contro oltre 600.000 euro. E la dislocazione delle start up sul territorio appare confusionaria e centralizzata soprattutto al Nord (Lombardia), cosa che ovviamente testimonia l’assenza di un piano di crescita su scala nazionale, che invece appare essere un elemento indispensabile per portare al successo questo comparto.
Avviare una start-up: cosa serve?
Per avviare una start up, oltre ai necessari finanziamenti, servono anche delle precise competenze. Innanzitutto l’idea, che deve obbligatoriamente essere innovativa e dunque assente sul mercato, in grado di soddisfare le esigenze incompiute di una certa nicchia di pubblico. A seguire, troviamo il timing: ovvero la tempistica, necessaria per comprendere quando il mercato è maturo per l’accoglimento di una certa idea, o quando è ancora troppo presto per investire molte risorse in un progetto ad ampio respiro. Poi, i finanziamenti: con un business plan completo, è possibile attirare partner commerciali con disponibilità economiche molto interessanti, ma a patto che si tratti di personaggi affidabili. E come può essere valutata la loro affidabilità? Oggi siti come Icribis consentono di effettuare le visure on line dei potenziali soci, e verificare la loro situazione economica prima di permettergli l’ingresso in società.
Quali sono le start up italiane di successo?
Pochi ce l’hanno fatta, è vero: ma quei pochi hanno dimostrato di avere tutte le carte in regola per competere con le big europee. Stando alla classifica stilata sull’insurtech, infatti, alcune start up italiane sono riuscite a piazzarsi in posizioni di grande rilievo. Ma di quali aziende stiamo parlando? Di start up come Amyko: una piattaforma in grado di registrare tramite una app tutte le informazioni mediche di una persona, rilevate attraverso un dispositivo indossabile. Poi troviamo altre realtà di tutto rispetto come D-Heart: una app che trasforma il cellulare in un elettro-cardiografo in grado di monitorare l’attività del cuore. A seguire, altri esempi virtuosi come Spixii e Darwininsurance (campo polizze assicurative), Laqy (un naso tecnologico in grado di misurare la bontà dell’aria) e SysDev (settore edile).