Quante morti o conseguenze infauste per tutti quei dipendenti esposti per anni al fumo passivo in azienda? Tante, troppe e quante e quanti familiari non hanno visto neanche ristorate le conseguenze della scarsa accortezza dei datori a rendere il posto di lavoro più salubre? Ma la giustizia, ove perseguita a volte arriva e riconosce la lesione di diritti sacrosanti come quello di non subire il fumo passivo nel luogo ove si svolge la propria attività professionale.
E così, con l’interessante ordinanza 276/18, pubblicata il 9 gennaio, la sezione lavoro della Cassazione è stato ritenuto legittimo il risarcimento concesso prima dal Tribunale di Messina e poi dalla Corte d’Appello della stessa città siciliana nei confronti di un dipendente per il danno biologico conseguente al fumo passivo patito per anni in azienda.
Per gli ermellini è corretto il principio secondo cui l’inalazione è riconosciuta dalla scienza medica quale causa del cancro delle vie aeree superiori. Nella fattispecie, infatti, il risarcimento del danno biologico era stato riconosciuto perché era stato dimostrato che il dipendente aveva prestato la propria attività lavorativa dal 1980 al 1994 in locali insalubri perché di ridotte dimensioni e saturi di fumo, così contraendo un tumore faringeo, diagnosticato dopo la cessazione del rapporto di lavoro, rimosso chirurgicamente e dal quale era derivata una invalidità permanente quantificata nella misura del 40%.
Con il caso approdato innanzi alla Suprema Corte, è così divenuta definitiva la condanna risarcitoria nonostante l’azienda avesse rilevato che il rapporto di lavoro fosse cessato ben sedici anni prima che la patologia neoplastica insorgesse e venisse diagnosticata. A confermare il nesso di causalità tra esposizione al fumo e insorgenza del tumore era stata la consulenza tecnica d’ufficio disposta nel corso di giudizio. L’ausiliario del giudice aveva esaurientemente risposto ai quesiti formulati, in particolare rilevando che la malattia avesse avuto origine professionale dopo aver escluso altri fattori eziologici come alcol o familiarità. In buona sostanza, nel caso in questione, le motivazioni addotte dalla corte territoriale risultano essere immuni da vizi, con la conseguenza che resta confermata in toto la decisione di merito con buona pace dell’azienda che è stata condannata anche alle spese del giudizio di cassazione.
Un lieto fine per una vicenda triste, comune a tante vittime incolpevoli sul lavoro e che costituisce un positivo precedente per quanti vorranno agire in giudizio per i danni connessi al fumo passivo patiti sul luogo di lavoro.
Giovanni D’Agata