Una mostra che parte dalle origini artistiche della Pop Art: nel 1962 il genio di Pittsburgh inizia a usare la serigrafia e crea la serie Campbell’s Soup, minestre in scatola che Warhol prende dagli scaffali dei supermercati per consegnarli all’Olimpo dell’arte.
Seguono le serie su Elvis, su Marilyn, sulla Coca-Cola. A colpire Warhol sono quegli oggetti che abbattono il divario tra ricchi e poveri: una Coca-Cola se la può permettere chiunque e, per quanto sia enorme il potere d’acquisto di un milionario, la sua Coca-Cola non sarà più buona di quella di chiunque altro. È in questi anni che comincia a dire che ognuno ha diritto a 15 minuti di celebrità, quella celebrità da cui è ossessionato da sempre e di cui nel percorso espositivo non mancano le testimonianze. Warhol diventa in quegli anni il centro catalizzatore della cultura newyorchese, frequenta i locali più ambiti del momento, come lo Studio 54 o il Max’s Kansas City dove si fa fotografare, tra gli altri, con Liza Minnelli, Debbie Harry, Paloma Picasso, Truman Capote.
Nel ’63 si trasferisce a lavorare in uno studio sulla quarantasettesima est, etichettato in breve tempo “Silver Factory”, la fabbrica d’argento, per l’aspetto che Billy Name – fotografo e grande amico di Warhol – riuscì a darne riempiendo i muri di carta stagnola.
Come si evince dalle numerose opere a questo dedicate in mostra, i frequentatori della Factory erano moltissimi: Bob Dylan, Truman Capote, John Lennon, Mick Jagger, Jack Kerouac, Salvador Dalì, Tennessee Williams, Rudolf Nureyev, Montgomery Clift. Chiunque poteva entrare nel magico mondo di Andy.
I ritratti di alcuni di loro spiccano sulle pareti del Vittoriano, così come le copertine degli album realizzate da Warhol raffiguranti immagini e simboli passati alla storia come la banana di The Velvet Underground & Nico del 1967, i jeans di Sticky Fingers (1971) dei Rolling Stones e molte altre.
Nel 1969 fonda Interview, un magazine interamente dedicato alle celebrità, forse l’unica vera, grande fissazione di Warhol. Dipinge incessantemente nella metà degli anni ’70, usando come base le polaroid scattate dai tanti personaggi che continuano a popolare la Factory: Liz Taylor, Sylvester Stallone, John Wayne, Liza Minnelli, Valentino, Armani, Caroline di Monaco e Michael Jackson.
Sono gli anni ’70 e ’80 a incoronarlo come il più prolifico e noto artista vivente, un’icona dalla vita straordinaria, tra i più grandi rivoluzionari del linguaggio artistico e culturale di tutti i tempi.
Nel pieno della fama e della popolarità, il 22 febbraio del 1987 Warhol muore sotto i ferri di una semplicissima operazione alla cistifellea, lasciando il mondo orfano di un personaggio che, come pochi altri, ha cambiato il corso della storia.
Un artista che diceva di non volersi occupare di politica, ma che condizionava le masse; che sosteneva di non ricercare alcun messaggio impegnato nelle sue opere, ma che intercettava la concezione moderna del pensiero. Un artista i cui 15 minuti di celebrità non sono ancora cessati.
Anticonformismo, introspezione psicologica e sperimentazione sono le tre linee guida che accompagnano lo spettatore della mostra POLLOCK e la Scuola di New York.
Attraverso circa 50 capolavori – tra cui il celebre Number 27, la grande tela di Pollock lunga oltre 3m resa iconica dal magistrale equilibrio fra le pennellate di nero e la fusione dei colori più chiari – colori vividi, armonia delle forme, soggetti e rappresentazioni astratte immergono gli osservatori in un contesto artistico magnifico: l’espressionismo astratto.
In mostra il frutto di una “rivoluzione” nata nel maggio del 1950 attraverso lo scandalo del Metropolitan Museum di New York quando, dallo stesso museo, viene organizzata un’importante mostra di arte contemporanea escludendo la cerchia degli action painter e scatenando la rivolta degli esponenti del movimento.
Proprio in questo clima di insurrezione e stravolgimento sociale, l’espressionismo astratto diventa un segno indelebile della cultura pop moderna, attraverso il particolare connubio tra espressività della forma e astrattismo stilistico, che influenzarono sensibilmente tutti gli anni 50′.
Action painting è innovazione, trasformazione, rottura dagli schemi e dal passato: una mostra per riscoprire non solo il fascino di tale movimento attraverso l’arte ma anche per rivivere emozioni e sentimenti propri di quegli artisti che hanno reso unica un’era della storia dell’arte.
Sotto l’egida dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, con il patrocinio della Regione Lazio e di Roma Capitale – Assessorato alla Crescita Culturale, la mostra POLLOCK e la Scuola di New York è prodotta e organizzata dal Gruppo Arthemisia in collaborazione con The Whitney Museum of America Art, New York e curata da David Breslin e Carrie Springer con Luca Beatrice.