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“Artena è un paese per giovani” Intervista al Dottor Stefano Serafini della Società Internazionale di Biourbanistica

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Serafini Artena

Un paese, anche il più piccolo, è un organismo complesso che in modi svariati interagisce con l’ambiente che lo circonda e con chi lo popola. La Biourbanistica studia questa complessità e nello specifico ha per oggetto lo studio dell’organismo urbano, inteso come sistema ipercomplesso, l’analisi delle dinamiche interne e quelle con il suo intorno (territorio), nonché le relazioni che sussistono tra dette componenti.

La definizione della disciplina Biourbanistica è stata redatta nel 2010 dal gruppo di lavoro della neonata Società Internazionale di Biourbanistica, formato da Antonio Caperna (architetto, Università di Roma Tre), Alessia Cerqua (architetto, Ministero dell’Ambiente), Alessandro Giuliani (biostatistico, primo ricercatore Istituto Superiore di Sanità), Nikos A. Salìngaros (matematico, Università del Texas) e Stefano Serafini filosofo e psicologo, segretario e direttore della società.

Architetti, urbanisti, biologi e filosofi, questa rete interdisciplinare vuole offrire un contributo scientifico all’attuazione di una progettazione urbana che tenga conto delle relazioni umane e del rapporto con l’ambiente, per assicurare uno sviluppo sostenibile

Il borgo di Artena, la sua storia e la sua organizzazione originaria, le sue relazioni e i legami fra le persone che hanno abitato quei vicoli in precedenza, sono aspetti fondamentali per gli studiosi della biourbanistica. Stefano Serafini, filosofo e psicologo, fondatore e segretario generale di questa società internazionale, ha deciso di studiare e di vivere Artena.

Stefano, quand’è che hai fatto conoscenza con Artena? Perché hai scelto Artena per vivere?

La prima volta che vidi Montefortino, perché per me questo è Artena: il suo centro storico che si staglia come un miracolo contro il cielo, rimasi senza fiato. Passavo in macchina, e pur abitandovi vicino da diversi anni non sapevo che esistesse un luogo così diverso, asciutto, magico.Ho notato che molti visitatori sono colpiti dalla medesima sorpresa, come se il paese, inesplicabilmente, fosse stato loro nascosto dietro a un velo fino a quel momento: “Come è possibile che non ne conoscessi l’esistenza?”.Non avrei mai pensato, allora, che un giorno vi sarei andato ad abitare. Pensa, non salii neppure a visitarlo come avrei subito voluto fare, scoraggiato da qualcuno che con tono aspro mi disse: “Non c’è nulla lassù, neanche un bar, e non ci si passa nemmeno con la macchina!”

Una dolorosa vicenda personale, invece, mi ci portò lassù, qualche anno dopo, nel 2011. Dovevo scegliere dove andare ad abitare e pensai subito al borgo che mi guardava muto dall’alto, discretamente presente nella mia immaginazione sin dalla prima volta che lo avevo ammirato. Dopo un po’ di ricerche trovai una casetta deliziosa nel cuore alto del paese. Quando l’addetto dell’agenzia di locazione andò via, ricordo che io rimasi davanti alla porta di legno antico, incapace di varcare la soglia. Non capivo perché, inizialmente; ma poi, sciogliendomi in pianto, compresi che quel luogo, quella casa, Artena, aveva radici e stava per accogliere me, che di radici non ne avevo più. Mosso da quel pensiero chiamai un mio anziano professore col quale avevo studiato le origini delle costellazioni e lo ringraziai per avermi insegnato che le radici degli uomini salgono dalla terra e affondano fra le stelle. Potei entrare; e non sarò mai grato abbastanza per la pace che quella piccolissima casa fu in grado di offrirmi negli anni a venire, con il suo silenzio da rifugio, le mura spesse, e i due occhi sereni aperti sulla vallata distante dai tramonti violetti e arancioni. Senza ancora rendermene conto cominciai a capire una qualità delle finestre di Montefortino: il cielo le usa per entrare in casa come un amico. Il cielo è di casa, a Montefortino, e oggi che vivo un po’ più giù nella casa che ho acquistato due anni fa è l’elemento più rilevante della mia quotidianità.

Si capisce che chi è abituato alla compagnia del cielo possa vedere con sospetto o disinteresse i comuni mortali che entrino nel proprio paese. Fu così anche per me. All’inizio i miei saluti (sinceramente squillanti perché facevo vita assai ritirata, ed ero già in pieno innamoramento per il luogo, cioè le pietre, la luce, i gatti e gli abitanti tutti che si mescolavano in un quadro che il mio cuore cominciava a riconoscere come “casa”) non venivano contraccambiati. Ma dopo un mese o due i più giudicarono che potevano concedermi accoglienza; e in verità incontrai molta gentilezza, la quale avvolse anche i miei amici italiani e stranieri che col tempo vennero a visitare il posto fascinoso nel quale ero andato a vivere.

Artena è diventa la tua casa e anche il centro di molti tuoi studi. Puoi spiegarci com’è nata questa Società e il suo approccio. Cosa ha trovato la Biourbanistica ad Artena?

L’anno in cui venni a vivere ad Artena avevo da poco fondato la Società Internazionale di Biourbanistica, una rete di studiosi interessati a cambiare radicalmente il modo di progettare e costruire le nostre città. I miei amici designer e architetti si entusiasmavano quando parlavo loro del sogno di un’urbanistica e di un’architettura del paesaggio consoni all’umano, dove è bello vivere ed è possibile ripristinare la libertà civica. Essi sapevano che le città moderne e contemporanee sono spesso brutti arnesi dove finanza, consumo e automobili sono i soli, veri cittadini. Artena/Montefortino fu una grandissima fonte di ispirazione per le mie riflessioni. Tuttavia vedevo bene che chi vi abitava aveva di fronte la slavina lenta dello spopolamento, dell’invecchiamento e della mancanza di sbocchi economici. Il borgo si era quasi svuotato negli ultimi vent’anni, perdendo giovani, attività e servizi. Cosa potevo fare?

Il problema del declino dei borghi storici italiani è ben noto, ma le soluzioni che venivano prospettate da accademici e professionisti giravano (e ohimè ancora vertono) sempre intorno alle ombre del turismo e dell’artigianato, al massimo della cultura, senza mai trovare l’aggancio reale al tanto decantato “cambiamento”, inteso peraltro come la trasformazione in qualcosa a metà fra un parco giochi, un museo, e un albergo diffuso, cioè la morte definitiva di un luogo reale.

Decisi di studiare il problema, e l’estate seguente con la mia Società organizzai la prima scuola estiva in biourbanistica proprio ad Artena. Non sapevo se qualcuno avrebbe risposto, ma volevo che gli studiosi che sarebbero venuti a discutere del futuro di una nuova disciplina, la biourbanistica, facessero esperienza dei vicoli e della gente che mi stavano insegnando tanto. Funzionò. La risposta arrivò da 12 Paesi e fu un’onda di intelligenza e di cuore. Su quella spinta a Ottobre organizzammo il lancio del Progetto Artena, un contenitore di ricerca ed esperimenti per salvare i borghi italiani dal declino. L’attività era febbrile, mi aiutarono soprattutto alcuni giovani artenesi molto capaci come Angelo Gentili, Andrea Centofanti e Gloria Lattanzi, e un cangiante gruppetto di architetti locali e internazionali, fra i quali il calabrese-ultimo-giapponese Guglielmo Minervino.

Siti web, progetti strategici per la pubblica amministrazione, corsi di formazione, una scuola da birraio, concorsi, iniziative turistiche, artistiche, culturali, sociali, scuole estive, articoli e interviste sui quotidiani, convegni e pubblicazioni scientifiche in Italia, Germania, Grecia, Russia, Turchia, Stati Uniti, Taipei… Per tre anni lavorammo diffondendo il nome di Artena, e poi di altri paesi Lepini, cercando una soluzione a quello che man mano si rivelava come un dilemma storico, non soltanto sociopolitico ma antropologico e, come tale, essenzialmente civico.

Fu allora che mi arrestai. Cominciai a credere di capire che le “soluzioni” potevano essere peggiori del “problema”.

Quali sono state le criticità più grandi che hai trovato in quest’azione e in queste riflessioni su Artena?  Secondo te che peculiarità e prerogative ci sono in questo borgo?

Le criticità di Artena non vanno ricercate nell’assenza di innovazione e creatività. Quelle sono parole d’ordine, slogan conservativi che il sistema di consumo spaccia per confondere chi vuole fare qualcosa e impedire che le persone si difendano. Guarda, innovazione e creatività hanno costruito e ricostruito e mantenuto nei secoli luoghi come Artena: i designer alla moda possono andare a dormire, ne ho visti tanti con la bava alla bocca davanti all’inesplicabile forza dei nostri luoghi. Marco Casagrande, artista finlandese di grande sensibilità, mi confessò: davanti a tanta bellezza provo paura, il più puro dei sentimenti.

Non sono criticità neanche la qualità più o meno bassa dei nostri amministratori, l’incuria pubblica, il taglio dei fondi statali. Tutte queste cose sono le conseguenze di un abbandono più a monte, e le condividiamo con tanti altri comuni. Generalmente, tutti gli abitanti dei Paesi occidentali stanno perdendo la prerogativa di scegliere della propria vita, delle proprie decisioni, e a maggior ragione delle scelte comuni e pubbliche. Protestare serve a poco e produce meno di quel che costa perché rientra in una liturgia civica ormai svuotata e mantenuta come spettacolo da decisori che operano distanti da noi. Non fraintendermi: ammiro molto e sono grato a chi ancora lotta in piazza per i diritti e per il benessere comune come sta facendo l’UGI a Colleferro ( Serafini fa riferimento alle lotte ambientaliste della valle del sacco seguito anche dall’associazioni Ugi n.d.r.).  Ma lì la forza non sta nell’appello legale, bensì nell’azione concreta: il blocco dei camion, per es., un’azione efficace e giusta che però potrà durare fin quando la corda urbana non si spezza (ricordiamo cosa è accaduto alla Val di Susa) e dunque ha bisogno di un sostegno sociale nuovo.  Ed è qui che veniamo alla prerogativa dei luoghi come Artena, e ancor più Montefortino borgo incastellato.

Quel che può avvenire nei piccoli centri dove le persone si incontrano, imparano l’una dall’altra l’arte civica di convivere compartendo bisogni e soluzioni comuni (dalla ricetta culinaria alla solidarietà per la perdita di una persona cara o del lavoro, dallo scambio di servizi al credito basato sulla fiducia personale, dall’uscire insieme in strada a bloccare il camion che vuole avvelenare la tua valle al fermarsi a scambiare due chiacchiere con l’anziano solo, al discutere sull’opportunità di un murales o di un concerto) è il sale del grande movimento urbano italiano e poi europeo dall’XI secolo in avanti. Oggi esso non può più avvenire nei grandi centri inurbati, quelli che da settant’anni risucchiano le popolazioni della piccola, vitale provincia italiana. I “cittadini” normalizzati metropolitani sono individui sempre più isolati. La trasformazione umana che subiscono era stata denunciata cinquant’anni fa da Pier Paolo Pasolini, ma oggi è ancor più accelerata, sottile, pervasiva e si aggiunge alla fine di un ciclo storico del capitale che sempre più apertamente mostra un volto meccanico e assassino. Perciò nei nostri piccoli centri storici (il mio amico Sergio Los li definisce “incompatibili al sistema”, ed io sottoscrivo) non dovrebbe mai esserci l’improprio circo del consumo fine a se stesso. Va bene un po’ di turismo, un buon ristorante e un’accoglienza di qualità, ma non scivoliamo nel modello Calcata, borgo trasformato dal “cambiamento” in un grosso bed&breakfast a cielo aperto, e che oggi è un deserto.

E dunque cosa manca al centro storico?

Verrò preso per ingenuo ed astratto, ma quel che davvero ci occorre, e che qui è davvero possibile, è l’amicizia civica e tutto ciò che può alimentarla, perché è da essa che nascono i servizi e l’economia –ma locali, a nostra misura, sufficienti a una vita buona per tutti.

Credo allora che sia solo questione di tempo perché un numero sufficiente di persone si accorgano di quei preziosi luoghi di resistenza che sono i nostri rifugi civici di pietre antiche. Qui possono risorgere, reinventati insieme a una conoscenza silenziata ma ancora viva, il valore economico reale, la politica, la democrazia che ci sono stati sottratti. E guarda, sta già avvenendo, non soltanto qui, ma in tutto il mondo, ed è un fenomeno enorme. Robert Neuwirth ha spiegato come l’economia informale e locale svincolata dai poteri globali e basata soprattutto sulla fiducia e i rapporti umani (quello che lui chiama “il Sistema D”) rappresenta trasversalmente un valore secondo solo al PIL degli Stati Uniti. Ad essa si aggancia un modo di costruire spazi di libertà civica che i nostri borghi avevano raggiunto secoli fa. Queste pietre, anche se sepolte fra le erbacce, conservano una sapienza che ci servirà per sopravvivere. Sono il nostro unico oro. Per questo Artena/Montefortino è un paese per giovani, e sono contentissimo di constatare che diversi ragazzi in tutta Italia stanno trovando forza in posti come Artena. C’è da rimboccarsi le maniche, ma il futuro è qui.